giovedì 26 novembre 2009

La ri-scoperta dell’organizzazione professionale (prima parte)

La modellistica della teoria organizzativa, ma anche la sociologia, ha da sempre collocato la scuola tra le organizzazioni che si caratterizzano per l’impiego di una particolare categoria di lavoratori, i cosiddetti professionals, che si distinguono per alcune specifiche caratteristiche, di cui almeno le più rilevanti sono: una solida base di conoscenze tecnico-specialistiche; percorso formali di accreditamento di tali conoscenze; la presenza di associazioni professionali alla cui appartenenza è spesso legata la possibilità di esercizio della professione; l’adozione di elaborati – e più o meno formalizzati – codici deontologici spesso accoppiati ad importanti aspetti vocazionali; uno spiaccicato senso di autocontrollo che si traduce, laddove la professione venga esercitata non liberamente sul mercato ma alla dipendenze di una qualche organizzazione, in pressanti richieste di autonomia nell’esplicazione del ruolo; un più che discreto livello di prestigio sociale e di reddito. Anche se non manca chi ha visto nella scuola piuttosto una configurazione dualistica derivante dall’ibridazione e dalla giustapposizione del modello della burocrazia professionale e di quello della burocrazia meccanica che realizza il coordinamento attraverso la standardizzazione dei processi, cioè attraverso la conformazione a regole procedurali formalizzate imposte dal centro del sistema. (cfr., ad esempio, Consoli, 1999). […]

Una dei principali parametri di progettazione per questo tipo di organizzazione è rappresentato, per tanto, dalla formazione e dall’indottrinamento anche se per i professionisti l’apprendimento delle competenze e l’interiorizzazione dei valori, della deontologia, professionale avvengono già per larga parte prima (di solito all’università) dell’ingresso in una organizzazione specifica. Una volta, comunque, avvenuto l’ingresso in una organizzazione, questa dovrà farsi carico di garantire le chances di prosecuzione dell’attività formativa sia favorendo, per parafrasare Mintzberg, l’apprendimento reciproco sul campo, tra professionisti sia predisponendo spazi e momenti a ciò esplicitamente deputati. […]

Va ricordato che le burocrazie professionali bene si adattano ad ambienti organizzativi che richiedono poco coordinamento, che sono, come si è usi dire ricorrendo ad un’altra nota metafora elaborata dal pensiero organizzativo proprio con riferimento alla scuola “a legame debole” o “lasco” (Weich, 1976). [Estratti dal libro "Organizzare la scuola dell'autonomia" di L. Benadusi e R. Serpieri]

giovedì 19 novembre 2009

Organizzare la scuola dell’autonomia

Premessa: la scuola come organizzazione? “Quella è una buona scuola”; affermazioni simili, frutto della nostra – come genitori, come insegnanti, come presidi, come studenti, ecc. – “realtà intellettuale”, potrebbero farci comprendere come individuare i caratteri organizzativi che definiscono una scuola piuttosto che un’altra come, appunto, una “buona scuola”. Tale operazione, tuttavia, appare molto più complessa in virtù della contingenza dei criteri di interpretazione, definizione e valutazione che, in alcuni casi, spingono persino a negare alla scuola lo stesso statuto di organizzazione. Non a caso, probabilmente, ancora sul finire dgli anni Ottanta, nel dibattito italiano si è ritenuto pertinente titolare un volume La scuola come organizzazione (Romei, 1986), quasi a rimarcare la necessità dell’introduzione di un “altro” punto di vista per leggere la scuola. Così come, anche nel 2000, ci sono avvertiti autori che tengono a distinguere in modo alquanto sofisticato questo punto di vista e a sottolineare, se non la completa infondatezza, almeno una sua consistente parzialità (Lichtner, 1999). La scuola, viene così enfatizzato, non è solo un’organizzazione, ma è anche un’istituzione rilevante – tutt’oggi – per la riproduzione socio culturale, la cui specificità risiede, peraltro, nel grado di autonomia relativa del suo campo comunicativo e discorsivo e dei principi educativi che la interessano in un dato contesto sociale (Tyler, 1988). Ciò rimanda, come è noto, alla questione della, per così dire, tecnologia pedagogica in buona misura indipendente, slegata, dalle caratteristiche formali della struttura organizzativa, più soggette alle pressioni isomorfiche dei diversi ambienti istituzionali (Mayer, Rouen 1977). Un’attenzione, quindi, al versante organizzativo delle istituzioni scolastiche dovrebbe tenere nel debito conto alcune necessarie cautele interpretative che derivano dalle seguenti considerazioni: 1. La scuola è una istituzione che può essere organizzata in varie forme […]. 2. Tra queste forme quella imprenditoriale può essere anche del tutto rigettata o accolta anche in solo in parte […]. 3. In quanto costruzione sociale la scuola, così come qualsiasi altra organizzazione, ivi comprese quelle più “razionali”, come la burocrazia weberiana e l’impresa taylorista-fordista, non può risultare esente da interpretazioni che tengano conto della letterale esplosione della cosiddetta teoria organizzativa […]. 4. La scuola forse più che altri tipi di organizzazione è una realtà eminentemente intellettuale […]. Parte dell’introduzione del libro a cura di Luciano Benedusi e Roberto Sarpieri.

lunedì 2 novembre 2009

Prof. dr. Guido Pesci - Relazione al Convegno

“ Sapere oggi per essere domani”

L’educazione dei giovani e la dispersione scolastica”

Ringrazio l'Associazione Arcipelago Onlus e il Distretto Scolastico Statale 29 di Casoria per avermi invitato a questo Convegno su: "Sapere oggi per essere domani" che nasce come occasione di analisi e di riflessione sulle prassi seguite nella conduzione del Progetto sociale “La Strada Maestra contro la dispersione scolastica e il disagio minorile”.

Il direttore scientifico dottor Giuseppe Errico ha ben esposto la storia di tale percorso ed i primi risultati con i dati ottenuti. Egli è da ammirare per aver evitato l’assistenzialismo sociale ed essersi mosso verso un intervento rivolto a stimolare volontà e impegno. Un percorso sicuramente non facile in cui immagino non saranno mancate le difficoltà da parte degli operatori che hanno avviato le consulenze psicosociali, condotto i corsi sulla genitorialità, seguiti i minori svantaggiati o che si sono impegnati nel disalimentare il bullismo e la dispersione scolastica.

Le difficoltà sono assai spesso legate alla scarsa professionalità, in troppi si spingono ad esempio in consulenze psicosociali e nella conduzione di corsi sulla genitorialità dichiarandosi ostili ai tentativi di inibire, dominare, controllare o dirigere ma, nonostante ciò continuano ad alimentare gli spazi di silenzio con domande e affermazioni, con spiegazioni e conclusioni, pronti a interrogare per rispondere con approvazioni o dinieghi. Operatori che si propongono come servus, con un “lasciati servire”, con l’intento di plasmare la vita degli altri, convinti di possedere risposte per incoraggiare e dare consigli, orientare, indirizzare, guidare, condurre…, suggerire servendosi di ciò che è scritto su di un copione autentico che portano con sé, cercando di organizzare alla persona un loro schema di vita. Un principio di sovranità con l’utilizzo di parole-farmaco che sottovaluta perfino ciò che diceva Cleobulo: “ascoltare è meglio che parlare molto”, oppure il motto “non mi dare consigli so sbagliare anche da solo”.

Operatori dimentichi che la persona non ha bisogno di un insegnante tecnico, né tanto meno di essere influenzata da altri, essa ha bisogno di essere aiutata a riflettere e con ciò giungere a scoprire in se stessa e da se stessa le forze necessarie per superare lo stato di inerzia psichica, per destarsi positivamente alla vita, quel desiderio di vita che è essenzialmente desiderio di felicità. Un offrire alla persona l’opportunità di riflettere, imparare a conoscersi e servirsi dei mezzi che possiede per difendersi e conquistare il dominio sulle circostanze ambientali, in luogo di esserne schiavo e spesso anche la vittima. La persona quindi deve essere aiutata nella riflessione e giungere a conquistare il cosciente possesso di sé, di cui deve essere l’artefice esclusivo, reggere il timone della sua barca ed imparare ad orientarla sul mare mosso della vita, tra scogliere palesi o nascoste, tra banchi di sabbia, gorghi traditori e correnti contrarie; perciò capace di fare l’analisi sulle origini dei propri disagi e trovare i mezzi per porvi rimedio.

Il problema è la formazione educativa dell’operatore, l’abilità e disponibilità a saper sviluppare nell’altro la riflessione, quell’arte nobilissima per la quale l’uomo impara a pensare, a scegliere i propri pensieri e a farne idee forza, idonee ad accrescere e organizzare l’azione del proprio volere, il valore, l’intensità e l’utilità della sua vita personale. Chi è chiamato in aiuto deve perciò aiutare la persona a diventare padrone di sé, a tenere in mano le redini della propria volontà per dar modo di conoscersi, di misurare le proprie forze, rintracciare e conquistare un terreno prezioso sul quale camminare senza paura.

Bibliografia:

- G.Pesci, S. Pesci, A. Viviani, Reflecting, Magi, Roma 2003

- S. Pesci ( a cura di), Manuale di Reflecting, Magi, Roma 2005

- G. Pesci, A. Viviani, Il facile mestiere di genitore, Magi, Roma 2008

- G. Pesci, Il tavolo di cristallo, Magi, Roma 2008

- G. Pesci, Percorso clinico, Magi, Roma 2004

- G. Pesci, Pedagogia clinica, Magi, Roma 2008

Anche dagli operatori chiamati a supporto dei minori svantaggiati e di coloro che vivono l’insuccesso formativo ci aspettiamo che si prodighino con l’intento di favorire i bambini/ragazzi in difficoltà e che sappiano che ciò può trovare garanzia nel conoscerli. Un principio che già veniva espresso nel 1860, anno in cui si legge che “La scuola è fatta per la generalità e deve badare specialmente e con particolare cura ai tardi”. Un sentimento del conoscere per aiutare ampiamente reclamato anche dal Rousseau e che ha trovato nella scuola del 1900 approvazione ed utilizzo con la Carta Biografica su cui venivano annotate per ciascun allievo le notizie anamnestiche, rilevate le potenzialità, abilità e disponibilità.

Ebbene, dopo 100 anni, è stato sottratto all’insegnante la possibilità di diagnosticare od osservare l’allievo e con ciò persa la grande occasione di esplorare e interpretare ogni suo repertorio semiotico, ogni produzione segnica, leggere il barometro delle abilità e disponibilità, comprendere lo spelling delle emozioni e feeling, conoscerlo e apprendere ogni stato di necessità a cui dare risposte.

Oggi, gli allievi in difficoltà li abbiamo ridotti a sbrigative nosografie classificatorie (dislessico, disortografico, trisomico, disprattico…), puntando l’attenzione solo sul problema ed agire con interventi settoriali che risentono dei dettami patologico-terapeutici, dei principi dell’ortopedia psichica, della cultura sensoriale che, come afferma il Vygotskij, si affida ad una concezione puramente aritmetica dell’insufficienza ed è testimonianza di “anarchia pedagogica”.

Siamo giunti infatti a pensare di risolvere il problema destinando i soggetti in box: per chi si presenta con difetti di linguaggio: la terapia logopedica in box del linguaggio, chi con turbe dell’organizzazione motoria: la terapia psicomotoria in box della psicomotricità, indifferenti alla complessità delle esigenze della persona.

Con altrettanta banalità c’è chi pensa, specie nella scuola, di risolvere le difficoltà, i disordini, gli impacci e i disagi che un allievo testimonia e vive, affidandosi ad “esercizi”, all’utilizzo di “schede”, ad un “fare attività” facendolo stare seduto ad un banchino o ad un tavolo, chiedendogli perfino di ripetere ciò che non sa fare ( se non sa leggere si fa leggere), confermandogli con ciò, ogni volta la propria inadeguatezza; dimentichi che una persona non è un deficit, una disarmonia, una incapacità da misurare e poi emendare.

Per realizzare un intervento di autentico aiuto occorre conoscere ogni necessità e intervenire in risposta ai molteplici bisogni con metodi, tecniche e tecnologie agite con il criterio del dare nel fare. Un impegno che richiede di non obliare gli effetti stimolatorio-tattili, propriocettivi, dialogico-tonici, sonori e fono-articolatori, tonematici, le modalità relazionali, posturali, mimico-espressive e coreografico-fonetiche, come pure i contributi delle nuove tecnologie cromatiche e psicocibernetiche, il suffragio delle immagini mentali e delle fantasmagorie… e si potrebbe continuare… stimoli diversi e multipli da cui la persona in sofferenza fisica, psichica ed emotiva può trovare le soddisfazioni che attende.

Bibliografia:

- G. Pesci, M. Mani, Prismograph, Magi, Roma 2001 (2° edizione)

- G. Pesci, S. De Alberti, Educromo, Magi, Roma 2006 (3° edizione)

- G.Pesci, M. Mani ( a cura di), Metodi e tecniche dialogico corporee, Edizioni Scientifiche Isfar, Firenze 2008

- A. Pesci, Metodo INterArt, edizioni Scientifiche ISFAR, Firenze, 2005

-G.Pesci ( a cura di), Edumovement, Edizioni Scientifiche ISFAR, Firenze 2008

Ed ancora, quali operatori per fronteggiare il bullismo e la dispersione scolastica? Altri temi scottanti che in tanti vogliono far passare per nuovi mentre già nel 1900 si sosteneva di dover “ovviare all’allontanamento puro e semplice dalla scuola dei refrattari al regime scolastico, così pure di impedire l’abbandono nella scuola dei soggetti che vanno a costituire l’intera zavorra”. Riconosciuto che il problema non è nuovo, otre a cercare di enucleare ciò che non si è fatto, occorre chiedersi cosa c’è da fare e si può ancora fare e come prepararsi per saper stare in relazione a queste componenti in disagio, come saper sostare sapientemente in dinamica e saper condurre un gruppo. Già si contano in molti gli operatori coinvolti nel risolvere i problemi del bullismo e della dispersione scolastica e c’è da chiedersi quanti fra questi sono coloro che hanno avuto una opportuna formazione per conseguire la disponibilità al rapporto e garantire stimoli idonei allo scambio e alle intese, e quanti sono invece ancora limitati allo spontaneismo, alle buone intenzioni o capaci perfino di pensare che siano abilità implicite di ogni educatore.

Sapersi relazionare in una dinamica educativa non solo significa essere abili nell’interpretare ogni comunicazione che la persona invia per mezzo del repertorio semiotico, della produzione segnica, della rappresentazione posturale, della polisemia tattile-corporea, di quel sofisticato strumento tonematico, ma anche saper esplorare i significati narrativi in ogni loro funzione semantica e sintattica.

La persona si propone a noi come un testo che narra di sé, un libro che ci offre in lettura il campo semantico delle passioni, delle sensazioni ed emozioni o feelings, espresse con i segni della meraviglia, dell’ammirazione, del desiderio, della tristezza…ogni atteggiamento, ogni movimento, abitudine, stato di malessere o di benessere, armonia o mancanza di equilibrio, ogni modo accanito utilizzato per affermarsi o per difendersi, e che l’operatore, per stare in dinamica, deve saper leggere sostanziato da un valido equilibrio psico-emozionale al fine di tradurre nell’allievo una positiva intesa e una abilità allo scambio.

E’ certo che un educatore nevrotico favorirà la costruzione di personalità nevrotiche, l’ansioso porterà la persona a considerare il mondo come un luogo pieno di pericoli generando alterazioni comportamentali, l’insicuro forgerà persone incerte e dipendenti.

Disequilibri personalogici saranno altresì prodotti dall’utilizzo di classificazioni come: svogliato, trasgressivo, disattento, cialtrone, ribelle, immotivato, vandalico, fannullone, maligno, distratto, passivo, capriccioso, negligente, asociale, insolente, indisciplinato, infantile, pigro, disubbidiente, assai frequenti in contesti che si definiscono educativi.

Né la persona sarà favorita nel suo sviluppo affettivo e nella sua disponibilità al rapporto, dalle minacce, dalle derisioni, dalle punizioni, dalle parole aspre e dalle umiliazioni, del resto sappiamo bene quanto le minacce incidono sulle disponibilità diminuendo la confidenza e la fiducia, e le punizioni, essendo una barbarie, siano sempre dannose adatte solo a creare una frattura tra l’allievo e l’operatore. L’umiliazione crea risentimento, colui che inciampa non dovrebbe essere calpestato ma aiutato a rialzarsi, le parole aspre e la derisione possono solo offendere il prestigio dell’allievo…

Tutto questo può essere evitato solo se l’educatore avrà assunto abilità e disponibilità a vincere disagi, freni e inibizioni, acquisito una buona conoscenza e consapevolezza di sé, rintracciata e fatta propria una equilibrata stabilità emotiva ed una necessaria capacità professionale. Un educatore che desista di cercare la soluzione nell’ istruzione ed assuma consapevolezza che solo l’educazione e perciò una diversa formazione degli educatori, realizzata con nuovi metodi e diverse tecniche può cambiare le sorti dei nostri figli.

Bibliografia:

- G. Pesci, Percorso clinico, Magi, Roma 2004

- G. Pesci, Pedagogia clinica, Magi, Roma 2008

- S. Pesci e al., Interventi clinici, Armando, Roma 2009